Nome: Massimo
Cognome: Adinolfi
Professione: Professore Ordinario di Filosofia Teoretica
Gioco a scacchi: SI
Presentazione
Ci si presenta se c’è un appello, qualcuno o qualcosa che chiami, a cui si risponde con un “Eccomi!”. A chiamarmi, in questo caso, è la passione per gli scacchi. E dunque, prima che filosofo o editorialista, sono un giocatore di scacchi, giocatore di circolo, che ha imparato da bambino, che ha giocato fino a 17 anni, che poi ha smesso per circa 40 anni e ha ripreso per insegnare ad altri bambini, i miei figli. E che oggi gioca poco e, di scacchi, scrive molto.
Qual è il suo rapporto con gli scacchi?
Il rapporto più difficile possibile, segnato quotidianamente dal “vorrei ma non posso”. Vorrei studiare scacchi, ma non posso. Vorrei frequentare il circolo di scacchi al quale sono iscritto (a Baronissi, SA), ma non posso. Vorrei partecipare al maggior numero possibile di tornei, ma non posso, me ne riesco a concedere appena uno o due all’anno. Vorrei seguire online i principali tornei che si disputano nel mondo, ma non posso, o posso solo saltuariamente. Vorrei comprarmi una scacchiera di particolare pregio, e per la verità potrei, ma non saprei nemmeno dove tenerla, e allora rimando persino l’acquisto. Quel che riesco a fare, è scrivere di scacchi: mi sembra cosa meritoria, se la considero in un’ottica generale, ma è anche il precipitato di tutte le impotenze che ho detto.
Oggi non si parla più di gioco, bensì di sport. In qualità di esperto di filosofia, quali sono gli effetti collaterali di questa nuova disciplina sportiva?
È una curiosa domanda: perché chiedere degli aspetti collaterali e non invece di quelli principali? Ad ogni modo, al gioco degli scacchi ho dedicato un libro e mi scuso ma devo rimandare a quello (“Problemi magnifici. Gli scacchi, la vita e l’animo umano”; Mondadori 2022. Qui direi così, che, gli scacchi sono ancora un gioco, anche se sono anche uno sport (e anche se la dimensione agonistica dello sport può prendere il sopravvento, soprattutto, com’è ovvio, a livello professionistico). Del gioco hanno una caratteristica essenziale, che per i filosofi è l’essere non solo soggetti-di, ma anche soggetti-a. Al gioco si gioca ma si è anche giocati, ossia presi, catturati. Ed è una delle poche attività in cui si vuole essere presi, ben più che liberati.
A chi consiglierebbe il gioco degli scacchi?
A chiunque non abbia ancora trovato un modo per rispondere a una vecchia domanda della filosofia: che cosa può un uomo? Fin dove può spingersi un uomo? So che gli scacchi vengono consigliati per migliori ragioni: per allenare la mente, per esercitare la memoria, per affinare le capacità di calcolo, per rafforzare la capacità di concentrazione, e così via. Ma per me, di sotto a tutto questo, sta quella domanda. A chi se ne sente investito consiglio dunque il tennis, l’alpinismo, le traversate oceaniche in solitaria, gli scacchi e la filosofia (non tutto insieme, però!).
Quanto incide sulla crescita di un individuo un gioco/sport come quello degli scacchi?
Non incide affatto e incide infinitamente: chi sa! Incide quanto può incidere una vera domanda, alla quale si voglia provare a rispondere o si inventino mille modi per evitarla. A scacchi non conta la fortuna – nobile insegnamento! –, e proprio per questo si inventano le migliori scuse per giustificare una sconfitta – meno nobile reazione! -. Bene: l’una e l’altra cosa incidono, possono essere un affare serio. Come dirsi la verità o fuggirla. Però gli scacchi possono anche essere un semplice passatempo, un divertissement. E non esageriamo: non abbiamo solo esigentissimi doveri nei nostri confronti, ma anche il diritto sacrosanto di divertirci.