a cura di Antonella Prudente
Chi è Nino Grasso?
Be’, spero che questo lo spieghi innanzitutto Lei ai suoi lettori nell’introduzione, per giustificare quest’intervista! Comunque, dato che il nostro incontro verte su scacchi e letteratura, rispondo che sono un avellinese del ‘72, nato da genitori arianesi, al quale in famiglia è stata trasmessa fin da ragazzino la passione per gli uni e per l’altra, e per i libri in generale. A casa mia ci sono sempre stati in giro libri e scacchiere, ed è stato fatale rimanere conquistato dal fascino di entrambi, finendo col coltivare attivamente queste passioni.
Per quanto riguarda gli scacchi, in particolare, ho imparato a giocare da mio padre, ma è con mio fratello Yuri, molto più grande di me, e che purtroppo non c’è più, che ho cominciato a fare i primi tornei. Poi lui, preso dalla politica, dall’insegnamento e dal giornalismo, non ha avuto più tempo e modo di praticare il gioco a livello agonistico, mentre io, ormai irrimediabilmente “contagiato”, ho continuato con un certo impegno, studiandoli e facendo tornei di crescente difficoltà, fino a raggiungere livelli e risultati abbastanza soddisfacenti per un non professionista: molte volte campione provinciale, titolo di Candidato Maestro, un punteggio Elo di oltre 2000 punti… Poi mi sono un po’ fermato, anche perché da un certo punto in poi perseguire traguardi più ambiziosi richiede un investimento di tempo incompatibile con l’esercizio parallelo di una impegnativa attività professionale, e perdipiù gli scacchi non è che siano un gioco – anzi, uno sport, perché sono ormai uno sport ufficialmente riconosciuto dal CONI come tale – particolarmente redditizio, sul piano economico.
Ad ogni modo, gli studi giuridici mi hanno portato a fare vari concorsi, finché ho superato, quasi un po’ per caso, quello di segretario comunale, e mi piace pensare che ci sia stato lo zampino degli scacchi anche nella mia assunzione, perché il primo Sindaco che mi ha chiamato, in Abruzzo, mi confidò che un aspetto che lo aveva incuriosito e favorevolmente colpito del mio curriculum era proprio quel titolo di candidato Maestro di scacchi che io avevo inserito in coda, dopo i titoli di studio e le altre esperienze lavorative, fra gli hobby e le competenze varie.
Dopo diversi anni in Abruzzo sono ritornato nella nostra Irpinia, e attualmente lavoro nei comuni di Capriglia e di Pietrastornina. La passione per gli scacchi naturalmente c’è sempre, così come quella per la lettura… Sono un lettore vorace, se non proprio onnivoro, e quasi un accumulatore seriale e compulsivo di volumi… e siccome quando ci si immerge nel mondo dei libri difficilmente si resta immuni dalla tentazione di scrivere a propria volta, mi sono cimentato e mi diletto per l’appunto anch’io nella scrittura, sia nel campo della narrativa che della saggistica che della poesia. E naturalmente era fatale che le due passioni si associassero più o meno creativamente (forse Koestler parlerebbe di “bisociazione”), sicché buona parte delle cose che ho scritto hanno degli inevitabili legami col mondo e col gioco degli scacchi.
La partita a scacchi, i pezzi, la scacchiera, sono stati oggetto di scrittura, hanno ispirato storie e fatti della letteratura. Quale genere letterario, a prescindere da quelli che lei ha già utilizzato, oggi meglio si addice e si adatta al ‘nobil gioco’?
Gli scacchi sono certamente universali; il fatto che siano così antichi, così presenti nella storia umana, così radicati nell’immaginario, così carichi di irresistibili simbologie, implicite o esplicite, ne fanno una sorta di ingrediente-prezzemolo della narrativa, ma anche della saggistica, di ogni tempo. Se però dovessi fare una scelta, non potrei che indicare il genere giallo, che è un’altra mia grande passione. Sul rapporto giallo/scacchi ho anzi scritto anche un piccolo saggio, e, qualche anno fa, una conferenza nell’ambito delle iniziative collaterali alle Olimpiadi degli scacchi tenutesi a Torino nel 2006.
Il rigore analitico comunemente associato agli scacchi rimanda quasi automaticamente al rigore razionale che si associa al genere giallo… mi riferisco, naturalmente, soprattutto al giallo classico della “Golden age”, il romanzo enigma “alla Agatha Christie”, per capirci. Questo genere letterario non a caso nasce proprio… con una dissertazione sugli scacchi! “Gli assassini della rue Morgue” di Edgar Allan Poe, considerato convenzionalmente l’atto di nascita “ufficiale” del genere giallo, comincia proprio con delle considerazioni (per la verità stravaganti e discutibili) sulle qualità intellettuali del giocatore di scacchi. Dopodiché quella tra “detective novel” e gli scacchi è stata una specie di “attrazione fatale”.
Mi sono divertito a creare uno schema classificatorio di questi possibili legami, che per la verità potrebbe essere adattato ed esteso alla letteratura tout court. Si possono distinguere tre livelli: un livello paratestuale, uno testuale e uno metatestuale.
Al livello paratestuale i riferimenti agli scacchi sono una semplice civetteria, restano un mero elemento esornativo: ad esempio compaiono nel titolo, nelle citazioni epigrafiche, nelle illustrazioni di copertina, quasi solo per rinviare a un’idea di sfida, tranello, cerebralità… Penso a libri come la Mossa del cavallo di Camilleri, Gambetto turco di Boris Akunin, Funerale a Berlino di Len Deighton…
Al livello testuale invece gli scacchi entrano nella storia, ma possono rivestire almeno quattro ruoli differenti; quello di mera comparsa, pressoché irrilevante nella dinamica dell’intreccio, come ad esempio in Io uccido di Giorgio Faletti; quello di elemento didascalico/metaforico più o meno esplicito, per connotare variamente personaggi, situazioni, atmosfere, o in chiave di razionalità e superiorità intellettuale (ad esempio ne La macchina pensante di Jacques Futrelle); o in chiave di solitudine e rigore morale (come nei romanzi di Chandler con Marlowe), o di monotonia e ripiegamento sull’attività mentale (L’uomo che guardava passare i treni di Simenon o Le due verità di Agatha Christie); quella, addirittura, di “rotella dell’ingranaggio”, quando diventano cioè proprio un elemento dell’intreccio, perché, ad esempio, sono la firma dell’assassino, forniscono o smontano un alibi, offrono l’occasione per il delitto, ne sono lo strumento, suggeriscono la soluzione e così via. Per questa categoria ci sono esempi celebri, il più famoso è probabilmente L’enigma dell’alfiere di Van Dine… oppure Scacco al re per Nero Wolf di Rex Stout, dove c’è un delitto che avviene durante una simultanea, o Poirot e i quattro di Agatha Christie, nel quale la vittima muore folgorata da un circuito elettrico che si attiva nel momento in cui muove l’Alfiere su una certa casella. Ancora, gli scacchi possono fungere da semplice sfondo narrativo, cioè fare da cornice, ambientazione, quadro sociale e psicologico della vicenda. In questo caso abbiamo storie sugli scacchi, oltre – e più – che con gli scacchi. Qualunque appassionato di scacchi e di letteratura non potrà a questo punto non citare – uscendo però dal giallo strettamente inteso – La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig o Novella degli scacchi di Stefan Zweig, che credo sia proprio il capolavoro assoluto della “narrativa scacchistica”, per qualità letteraria.
C’è infine anche un livello metatestuale – che può ovviamente convivere con gli altri – nel quale gli scacchi diventano proprio il modello formale e strutturale del racconto, esplicito o implicito. L’ esempio classico è un romanzo di fantascienza che è anche un giallo: La scacchiera di John Brunner, basato su una reale partita a scacchi giocata da Steinitz e Chigorin all’Avana nel 1892. I personaggi del romanzo rappresentano i vari pezzi e agiscono riproducendo nella storia l’andamento della partita.
C’è anche un rapporto con la poesia?
Naturalmente sì, anche se all’apparenza il rigore e la razionalità degli scacchi sembrerebbero non sposarsi bene con un genere che maggiormente associamo al sentimento, all’emozione, alla fantasia… Si potrebbero fare fior di esempi, a cominciare dai versi del Canto XXVIII del Paradiso sul numero degli angeli che “più del doppiar degli scacchi s’immilla”, dove Dante non trova di meglio, per cercare di rappresentare la vertigine dell’inesprimibile, che ricorrere alla leggenda di Sissa sull’origine degli scacchi, col numero di chicchi di riso chiesti come ricompensa dal presunto inventore del gioco che raddoppia di casella in casella, fino a raggiungere un numero, per l’appunto, “quasi” infinito.
Del resto come potrebbe restare, la poesia, indifferente a un gioco che si presta a una tale, inesauribile quantità e varietà di letture metaforiche, a cominciare da quella dicotomia conflittuale bianco/nero che rimanda a quelle tra male e bene, vita e morte, giorno e notte… Si potrebbero citare a questo proposito due poesie di Primo Levi, tratte da “Ad ora incerta”… e, forse l’esempio più alto, un doppio sonetto sugli scacchi di Borges, che a sua volta cita l’antico persiano Omar Khayyam, ove si parla dei pezzi e poi del giocatore, a sua volta prigioniero di una scacchiera “di nere notti e bianchi giorni”, con l’indimenticabile conclusione: “Dio muove il giocatore, e questi il pezzo./ Quale dio dietro Dio dà inizio alla trama/di polvere e tempo e sogno e agonie?”
Che cosa vede lei in una partita?
Gli scacchi sono un gioco molto particolare, nel quali convivono scienza, arte, sport, psicologia, competizione; richiedono razionalità ma anche fantasia, preparazione mentale e fisica, grande determinazione… E’ nota la frase di Kasparov secondo cui sono lo sport più violento che esista; un po’ provocatoria, certo, ma efficace nel cogliere l’aspetto spietatamente competitivo di un gioco nel quale bisogna sopraffare, senza la minima indulgenza, l’intelligenza e la volontà dell’avversario, sicché, come una vittoria può essere fonte di grande soddisfazione, una sconfitta può essere fonte di grande frustrazione. Del resto gli scacchi sono pur sempre la rappresentazione di una battaglia, benché sublimata in una forma pacifica e incruenta. Ogni partita naturalmente è una fonte molto stimolante di diletto, ma anche di tensione che talvolta si fa palpabile, e quasi di sofferenza. C’è un autentico mare in tempesta nel cervello di uno scacchista, quando è nel pieno della sua concentrazione durante una partita difficile. D’altra parte Raymond Chandler, che pure era un cultore del gioco, con una battuta sarcastica delle sue disse che gli scacchi sono il più grande spreco di intelligenza umana riscontrabile fuori da un’agenzia pubblicitaria…
Personalmente, comunque (ma credo sia comune a tanti), sono affascinato dalla latenti potenzialità combinative degli scacchi, dalla possibilità di realizzare, attraverso sacrifici o altre mosse inattese che sembrano contraddire l’arida contabilità materiale, una sorta di sovvertimento dei rapporti di forza, un po’ come se l’intelligenza prevalesse sulla forza bruta, lo spirito sulla materia, il talento sul potere. C’è qualcosa di poetico in questo aspetto del gioco.
E’ un gioco dove fa da padrone la regina, ma le donne sembrano esserne lontane.
La Regina è un pezzo che nasce in realtà come maschio, era il Visir, una sorta di stratega che conduceva la battaglia per conto del Re. Poi, sulla sua trasformazione in Regina ci sono molti studi e teorie di vario segno, così come sulla scarsa pratica del gioco da parte delle donne. C’è chi la riconduce a una loro presunta minore propensione al pensiero astratto e analitico-razionale (quello da “emisfero da sinistro” del cervello, per capirci), chi invece ad una loro minore, ancestrale attitudine alla violenza e alla competizione/ conflittualità; chi, ancora, a una “esclusione” di carattere sociale e patriarcale. Ci sono molte testimonianze, almeno fino ai primi dell’Ottocento, della pratica del gioco da parte di dame di corte, ma si trattava di un fenomeno superficiale e privo di qualunque dimensione agonistica… gli scacchi erano un mero passatempo di palazzo per cortigiane o castellane, che magari poteva fungere da occasione sociale di incontro e dialogo con nobili e cavalieri.
Perché si gioca ancora poco a scacchi?
Be’, la diffusione del gioco per la verità è in forte crescita negli ultimi anni. Una grande spinta è stata data dal Covid, che costringendoci in casa, ha fatto aumentare vertiginosamente il gioco online, e, contemporaneamente, il successo mondiale della serie “La regina degli scacchi”, che ha generato molto interesse. Del resto gli scacchi sono uno dei giochi più diffusi del pianeta… in quale casa non c’è una scacchiera? E’ vero comunque che tradizionalmente non è facile compiere quel passo in più che porta dalla partita amatoriale e domestica all’iscrizione ad un circolo, alla frequenza di corsi, alla pratica di torneo. Ribadito che, comunque, anche in questo caso i numeri mi sembrano in crescita, una delle cause di questa difficoltà potrebbe essere un certo pregiudizio che da sempre circonda il gioco, visto come una cosa da “nerd”, da secchioni, o, peggio, da asociali o disadattati. L’esempio di certe figure geniali ma problematiche, come Bobby Fischer, può aver inciso su questa percezione, assolutamente semplicistica e superficiale (nel suo caso, come in altri, magari gli scacchi sono stati valvola di salvezza e non causa di alienazione). E inoltre le cronache recenti sono piene di belle storie, spesso divenute romanzi e film, in cui gli scacchi sono stati strumento e occasione di riscatto ed emancipazione di ragazzi in difficoltà, emarginati, immigrati…
Poi c’è da considerare, certo, una tendenziale preferenza per i giochi di squadra, che magari favoriscono di più la socializzazione. In molti casi c’è anche la paura del confronto e delle frustrazioni che può procurare una sconfitta a scacchi. La dimensione individualistica degli scacchi comporta anche il dover farsi interamente carico della responsabilità dei propri risultati.
Comunque si stanno facendo molti passi avanti, anche con meritorie iniziative nelle scuole.
Uno dei suoi libri è L’Imperatore che giocava coi Re: Napoleone e gli scacchi tra storia, leggenda, falsi e misteri. Perchè Napoleone?
Credo che nessun appassionato di storia, ma forse nessuno tout court, possa rimanere indifferente rispetto all’incredibile vicenda umana di Napoleone e alla grandiosa complessità della sua figura, così piena di luci e ombre, e peraltro così indissolubilmente connesse. Ne era consapevole lui stesso, tanto da dettare a Sant’Elena, meditando sulla sua epopea: “Di che cosa mi si potrà accusare, senza che uno storico possa difendermi?”. Frase che, naturalmente, potrebbe essere ribaltata.
Se poi uno è anche appassionato di scacchi, e scopre che pure Napoleone si dilettava nel gioco, e che ci sono tre partite a lui attribuite, con tanto di mosse trascritte, è quasi inevitabile che cominci a studiarle, e poi a interrogarsi, a chiedersi come sono arrivate fino a noi e chi le abbia trascritte, quale fosse il reale livello di abilità di Napoleone alla scacchiera, a cercare documenti, a ricostruire gli eventi… fino a scriverci un libro, per dimostrare che quelle partite sono tre falsi, benché molto suggestivi. Dietro ciascuna di quelle tre “verosimili” partite di Napoleone, infatti, c’è un episodio significativo o curioso della sua vita, in un caso una sorta di vero e proprio “giallo” storico, che ha ispirato la costruzione dell’apocrifo e favorito la sua diffusione, per un motivo o per l’altro. Così mi sono divertito a scrivere questo libro, mettendo insieme ricerca, racconto e riflessione.
Nella partita della sua vita a che punto è? Ha già uno scacco matto? Ha già fatto scacco matto?
Data la convenzionale suddivisione della partita a scacchi in apertura, mediogioco e finale, devo dire che sono… in pieno mediogioco, e che spero che sia lunghissimo!
Nella vita ciascuno di noi ha degli obiettivi e cerca di perseguirli in maniera più o meno coerente ed efficace, ma poi, come negli scacchi, c’è quello che Aldous Huxley – ripreso anche in un giallo di Ellery Queen – chiamava “The player on the other side” (Dio, destino, natura o caso che sia) che fa le sue mosse e ci condiziona. L’importante, al di là dei risultati, è dare un senso alla partita, come fa il Cavaliere nel “Settimo sigillo” di Bergman. Quanto alla scacco matto (che viene dall’arabo, e non a caso significa “Il Re è morto”) purtroppo lo subiamo tutti, prima o poi. Meglio quindi avere sempre una partita da giocare…
E’ il gioco del libero arbitrio nonostante le regole?
Uno degli aspetti affascinanti degli scacchi è il fatto che, nonostante le sue regole rigorosissime, il gioco ha sviluppi labirintici e quasi incalcolabili, benché non infiniti, e quindi il ruolo della fantasia, della creatività, del gusto personale restano decisivi.
Direi che è proprio l’esistenza di regole e di limiti a dare senso e valore al libero arbitrio e alle scelte che facciamo. Mi viene in mente la “poetica della cornice” di Gilbert K. Chesterton, secondo il quale l’arte è limitazione, e perciò sosteneva, per amor di paradosso, che la parte migliore di un dipinto è la cornice, in quanto sua componente essenziale e strutturale. Il pittore ama la cornice, come un poeta ama i limiti metrici o ritmici del verso, perché è proprio l’esistenza di quei limiti che consente loro di essere pittore e poeta. Per gli scacchi è lo stesso, forse anche per la vita.
Con chi avrebbe voluto giocare la partita dei suoi sogni?
Mah… Potendo viaggiare nel passato, forse risponderei Philidor, che fu un grande compositore, musicista di corte del Re di Francia, e anche il più grande giocatore di scacchi del ‘700, autore fra l’altro di un libro, l’Analyse du jeu des échecs, che fu a lungo una specie di Bibbia del gioco, il primo trattato moderno e organico sugli scacchi. Philidor era letteralmente imbattibile, e la sua superiorità era così conclamata che giocava quasi sistematicamente dando qualche vantaggio (un pedone, un pezzo, una torre) all’avversario di turno. Il suo stile fu a suo modo rivoluzionario, perché in un periodo in cui si giocava “all’italiana”, come si diceva all’epoca, cioè gettando i pezzi avanti, in cavallereschi quanto ingenui assalti all’arma bianca contro il Re avversario, per dare subito scacco matto, Philidor valorizzò invece l’umile pedoncino, definendolo “l’anima degli scacchi” e dimostrando tutta la sua importanza come elemento strutturale della posizione e come potenziale regina in pectore, in marcia verso la promozione. La Rivoluzione “vera” del 1789 e gli eccessi giacobini gli resero poi la vita difficile, perché fu considerato un amico dell’aristocraiza. Visse gli ultimi giorni in esilio e fra gli stenti a Londra, mantenendosi proprio con le partite di scacchi. Se potessi quindi, cercherei di incontrare il grande Philidor nel suo “quartier generale” parigino, ossia il celebre Cafè de la Régence, e questo anche per un altro motivo: tra coloro che facevano la fila per giocare contro di lui poteva infatti capitare di imbattersi in clienti abituali che si chiamavano Voltaire, Rousseau, Diderot… In un certo giorno del 1786, poi, avrebbe potuto esserci anche un giovane e squattrinato tenente dell’esercito francese al quale, chissà, Philidor potrebbe aver insegnato che “nello zaino di ogni soldato si nasconde il bastone da maresciallo”… e magari lo scettro di Imperatore… si chiamava Napoleone Buonaparte (all’epoca, ancora con la U nel cognome).