03.09.2013, di Fiorenzo Iannino (da “Il Corriere”)

Il giurista di origine irpina era un frequentatore applaudito dei più importanti salotti di Napoli, dove veniva acclamato per l’innato talento di giocatore “alla cieca”.

Durante il rinascimento e l’età barocca in Italia ed in tutta Europa il gioco degli scacchi ebbe una grande fortuna, divenendo una delle attrazioni più in voga nelle corti e nei palazzi patrizi delle grandi città ma anche dei più modesti centri di provincia. Furono molti, allora, gli scacchisti italiani che acquisirono fama internazionale (e lauti premi) grazie al talento espresso nel gioco e alle innovazioni apportate nello studio teorico e tecnico della disciplina.

In questa schiera si distinse il giurista di origine irpina Alessandro Salvio (1575 ca/1640) frequentatore applaudito dei più importanti salotti di Napoli, dove veniva acclamato per l’innato talento di giocare “alla cieca”: incuriosito dall’alone di leggenda che lo avvolgeva, volle ammirarlo lo stesso viceré Pimentel de Herrera, che poi gli riservò pubblici elogi.

Tra le sue innumerevoli vittorie, va almeno ricordata quella conseguita ancor giovane (probabilmente nel1595) sul più esperto Paolo Boi, detto il Siracusano: da quel momento fu unanimemente considerato il più forte giocatore del Regno (non manca chi, tra gli esperti di “archeologia scacchistica” lo considera virtuale campione del mondo della sua epoca).

Le sue opere più note sono: il “‘Trattato dell’Inventione et Arte liberale del Gioco di Scacchi, diviso in Discorsi, Sbarratti e Partiti” (Napoli,1604) e “Il Puttino, altramente detto il Cavaliera Errante del Salvio sopra il Giuoco degli Scacchi, con la sua Apologia contra il Carrera, diviso in tre libri” (Napoli,1634).

Nel 1723, a riprova del valore non effimero della sua opera, venne pubblicato “Il Gioco degli Scacchi del Dott. Alessandro Salvio, diviso in IV libri, ed in questa ristampa accresciuto di alcuni Giuochi dello stesso Autore, non ancora dati in luce”.

Pietro Giannone, nella sua immortale “Istoria civile del Regno di Napoli”, lo ricorda “celebre per le lettere e per il famoso trattato che compilò del Giuoco degli Scacchi”. Ancora oggi, Salvio continua ad essere celebrato tra gli appassionati scacchisti di tutto il mondo.

IL GIOCO NELLA BAGNOLI DEL SEICENTO

Salvio nacque a Bagnoli Irpino in una facoltosa famiglia che si eRa già resa illustre grazie alle virtù dello zio Ambrogio, il dotto e raffinato padre domenicano che fu confessore dell’imperatore Carlo V e vescovo di Nardò. Il padre Donato lo indirizzò con successo agli studi di legge, insieme al fratello Antonio, che poi preferì la carriera militare mettendosi al servizio di re Filippo II di Spagna.

Un suo breve profilo biografico lo ritroviamo nelle “memorie storiche di Bagnoli” di Alfonso Sanduzzi, stampate nel 1924, in cui si ricorda il rapporto filantropico (ma anche politicamente controverso, almeno secondo il giudizio dell’autore) avuto con la comunità di nascita:

Costui nacque (la Donato Salvia, figlio di un fratello del famoso Ambrogio, e l’ epoca della sua nasata non sì sa con precisione, ma poté avvenire verso l’ultimo quarto del Secolo XVI. Dopo avere appreso in Bagnoli nel Convento di San Domenico i primi elementi di letteratura e filosofia fu menato in Napoli a studiare Giurisprudenza, a cui si dedicavano i migliori ingegni di quel tempo, e riuscì a fregiarsi della Laurea dottorale, e darsi all’esercizio della professione di Avvocato, in cui acquistò un buon nome. Attese ancora ad altri studi specialmente di letteratura, e nei suoi ozi scrisse e pubblicò in Napoli nel 1634 un libro sul Giuoco degli Scacchi, cui diede il titolo di Puttino o Cavaliere Errante, che incontrò il favore di tutti i letterati e degli amatori del gioco […].  Sposò Giulia Palatuccio sorella di quel Cesare Palatuccio, che fu per breve tempo feudatario di Bagnoli, e forse fu il Salvio, quegli che spinse il cognato all’acquisto di questa Terra, e per tal fatto si procurò l’avversione della borghesia bagnolese, la quale per liberarsi dal suo dominio affrontò il grave problema di quei tempi per sottrarsi dal giogo feudale, cioè di rendersi terra demaniale. Però il Salvio benchè avesse eletto il suo domicilio in Napoli non si dimenticò della sua patria, e si rese benemerito di essa con l’erezione di una Cappella dedicata: alla SS. Trinità, che ancora esiste e col dotare sia essa, che l’Ospedale esistente allora in Bagnoli nella fine della strada omonima, di un’annua rendita pel mantenimento. L’ospedale in parola era destinato per raccogliere pellegrini ed infermi, ed aveva uno speciale inserviente a questo scopo, ed il fabbricato, che portava tal nome, lo abbiamo visto, benché diruto, fino ai nostri giorni“.

Sanduzzi si rammaricava di non essere riuscito a leggere le opere di Salvio, allora introvabili. Se ne avesse avuto l’occasione, vi avrebbe ritrovato delle pagine in cui lo scacchista ricorda esplicitamente, e con evidente orgoglio, l’origine bagnolese. Dal “Puttino” apprendiamo che la polemica teorica e personale col siciliano Pietro Carrera, una delle più virulente della sua carriera, ebbe origine grazie alla segnalazione di un amico sacerdote compaesano, esperto cultore del gioco: “avendo posto in luce il suo libro il Signor Don Pietro Carrerà, furo molti, che lo comprorno; e fra l’altri vi fu il molto Reverendo Don Giovanni Donato d’Aulisa Primicerio nella Colleggiata Chiesa di Bagnuolo mio molto amico, e parente, huomo di molte belle lettere, e del gioco de Scacchi molto intendente“.

Ill prete, che non era il solo scacchista di Bagnoli, lesse e commentò il libro del Carrera insieme agli amici. Sappiamo, così, che in paese c’era un gruppo di appassionati, il migliore dei quali era senza dubbio quel Cesare d’Aulisa, che lo stesso Salvio, elencando l’elite degli scacchisti napoletani, indicò come “il primo nella terza classe e il secondo nella classe seconda giocando anch’egli di memoria“.

Dunque, i compaesani lo sollecitarono a rispondere a Carrera: “essendosi giontato con molti amici e compatrioti a leggere detto libro, con molto gusto, cioè i suoi discorsi, i quali sono veramente molto curiosi e vaghi, recando diletto grande a’ Lettori: ma venendo alii sbaratti inviorno a me detto libro, acciò lo vedesse, e de detti sbaratti dessi loro ragguaglio di che carata fosse; valsi compiacere all’amici, e vedendolo minutamente, cioè li principij del gioco de pari, vi ritrovai molti errori e perché in due luoghi egli tacciava il mio libro, ritornai alli medesimi amici il detto libro, accennando l’errori di quello, e la mia difesa“.

Non potendo recarsi egli stesso in paese per discutere dell’argomento con gli amici, affidò le sue riflessioni ad un suo uomo, anch’egli di origine bagnolese (almeno a giudicare dal cognome), ugualmente esperto della materia: “facendo, e dandone pensiero a Scipione de Rogata huomo di mia casa, e del gioco intendente, che fusse con detti Signuri, e che loro scriveva notassero molto bene, avvenne che arrivando in Bagnuolo comune Patria, s’abbattè al primo con detto Signor de Aulisa, il quale chiamati l’amici cominciorno a far pensiero alli miei scritti, e vedere s’erano sussistenti l’errori portati nel Carrera, e la mia difesa: ‘laonde -disse il Rogata- che vi pare dello che dice il Salvio. Rispose il Signore Aulisa in questo modo: ‘In quanto posso considerare, il Carrera in due cose taccia il Salvio […]’.

Salvio rispose al suo avversario col successivo dialogo, tecnicamente perfetto, tra Scipione de Rogata ed il primicerio d’Aulisa.

SCACCHI E POESIA

I biografi di Alessandro Salvio amano ricordare l’omaggio tributatogli dall’inglese George Walker nel 1844, che ne apprezzò anche le qualità di scrittore, capace di rendere avvincente il racconto delle sue epiche vittorie: “il suo stile di narratore ha molto dello stile di Defoe; la semplicità dei suoi dettagli li fotografa con un’aria di profonda e letterale verità”. Fu anche poeta ed autore della tragedia “Scaccaide”. Di più, secondo il costume letterario del tempo, compose vari sonetti da inserire nei trattati, a commento dei capitoli più importanti.

Ecco, ad esempio, come descrive la vittoria ottenuta verso il 1610 sull’amico-avversario Giovanni Domenico De Leonardis, alla presenza del viceré, duca di Lemos: Sfìdommi a Scacchi il gran Leonardo, e volse / Seco giucassi, e a lui sortissi il tratto: /Ei comincia, io l’incontro; ei ponsi in atto /Di gambitto, ed a pigliar tosto m’involse. /Segue egli il giuoco, el suo Cavallo sciolse; /Ei l’Alfier, io rispingo; ei fugge, io al matto/Corro; egli il Re move, el colpo svolse. / Grida egli ho vinto, or cedi, e a me dà il vanto, /Troppo ardisti a venir meco al contrasto, /Che’n tal mestier tu non sei meco uguale. /Conobbi il tiro, e a lui mi volgo in tanto, /Disseli, il vincitor vinto è rimasto. /A cader va chi troppo in alto sale. /Ecco che ‘l tuo rivale/T’ha vinto, e poi ti dice, /Gambitto a giucator farsi non lice.

Ma, forse, il sonetto che più di ogni altro meglio esprime la sua passione per gli scacchi è questo in cui descrive il gioco, in apertura de “Il puttìno”: Re, Donne, Afier, Cavalli, Rocche, e Fanti,/ Guerreggiano tra lor nel bianco e nero, / Nel campo d’un quadrato, e bel Scacchiero: /Che ne morie, ne orror reca, ne pianti, /Ma d’onesti diporti aggio, fra quanti /Degni potesse oprar nobil guerriero: /Che fortuna non già, ma volar vero /D’ingegno ivi s’adopra adopra in modi tanti:/Onde invito ciascun, venga a sì degno / Teatro, che a noi mostra a un tempo insieme /Guerra, schermo, duel, tragedia , e giuoco. / E s’avverrà, ch’alcun arrivi al segno / De’ primi, avrà oltre il diletto, speme /Certa d’util, d’onore in ogni loco.